Omelia di Mons. Giovanni Checchinato nella celebrazione di San Severo Vescovo

27 Settembre 2017

La festa del nostro patrono è una occasione formidabile per l’incontro fra tutti coloro che hanno un legame con San Severo, Vescovo di Napoli, primi fra tutti gli abitanti di San Severo, ma anche coloro che sono legati alla nostra città che è sede della diocesi, e dunque tutti gli abitanti della diocesi. Questo è peraltro il motivo per cui a questa celebrazione vengono invitati non solo tutti i sacerdoti e i parrocchiani della diocesi, ma anche tutti i sindaci e le autorità civili, che ringrazio di vero cuore per la loro presenza. Sono scarne le notizie sulla vita del santo, ma un’importante testimonianza ne illumina lo spessore umano e cristiano: una lettera a lui indirizzata da sant’Ambrogio nel 393. Anche il pagano Quinto Aurelio Simmaco, prefetto romano, riconosce le qualità di San Severo, come dimostra una sua lettera del 397-8 al console napoletano Decio Albino. Da vero cristiano, Severo ha preso sul serio il Vangelo e lo ha testimoniato senza vergogna e con franchezza: l’eco della sua opera è stata ben evidente sia all’interno della esperienza ecclesiale, ciò che ha consentito a Severo di essere annoverato fra i santi, ma anche all’esterno, viste le positive menzioni delle sue qualità per bocca di uomini del suo tempo, non necessariamente collegati con l’esperienza ecclesiale. Riconosciamo in Severo il nostro patrono e riferiamo a lui quanto la liturgia della chiesa esprime quando nel “prefazio” della solennità di tutti i santi recita: “Noi, pellegrini sulla terra, […] ci rallegriamo […] per la sorte gloriosa di questi membri eletti della Chiesa, che ci hai dato come amici e modelli di vita”.  Amici e modelli di vita: questo il dono d’amore con cui i santi continuano a starci vicino. Amici e modelli di vita: da loro possiamo imparare a vivere la fedeltà al Vangelo che rende santi. Nella loro vita possiamo scorgere il contributo che hanno offerto alla storia del loro tempo coniugando in modo tutto speciale la buona notizia racchiusa nella Sacra Scrittura con la quotidianità della vita. L’essere modelli di vita significa ancora insegnarci a vivere con serietà nell’oggi della nostra storia la verità e la potenza liberatrice del vangelo. Cosa ci insegna dunque san Severo nell’oggi della nostra storia?
La prima parola che ci consegna è “LIBERAZIONE”. È la parola chiave della prima lettura presa dal profeta Isaia, ed è stata la parola chiave del primo discorso pubblico di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Liberazione: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore […] mi ha mandato a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (Is 61,1). Di che liberazione di tratta? Certamente della liberazione dal peccato che continua a regnare nella storia degli uomini, crescendo come zizzania accanto al buon grano, e che talora mostra tutta la sua forza e la sua squallida potenza negli avvenimenti quotidiani che salgono agli onori delle cronache nere dei nostri giornali e dei nostri mass media. In questi mesi abbiamo assistito nel nostro territorio ad una vera e propria guerra criminale, feroce e violenta, a tratti sottovalutata. I segnali dell’arroganza criminale ci sono e da tempo: prostituzione ovunque, tra San Severo e Foggia; spaccio di stupefacenti dappertutto; racket; omicidi; furti e rapine; eccetera… Se da una parte è da sottolineare il grande lavoro delle Istituzioni e delle Forze dell’Ordine e della Magistratura per arginare questo triste fenomeno, tuttavia la violenza mafiosa in atto richiama tutti alla corresponsabilità, all’essere cristiani più attivi, più consapevoli, più attenti. Ad essere cristiani che non si concedano troppo facilmente deroghe rispetto alle regole comuni che ci chiedono di essere attenti alle persone, agli spazi dove sono le nostre case, alla promozione del bene, ad un linguaggio meno violento, all’attenzione nei confronti della crescita dei nostri ragazzi.  Papa Francesco, qualche giorno fa, parlando ai membri della Commissione Parlamentare Antimafia ha affermato: «Il punto di partenza rimane sempre il cuore dell’uomo, le sue relazioni, i suoi attaccamenti. Non vigileremo mai abbastanza su questo abisso, dove la persona è esposta a tentazioni di opportunismo, di inganno e di frode, rese più pericolose dal rifiuto di mettersi in discussione. Quando ci si chiude nell’autosufficienza si arriva facilmente al compiacimento di sé e alla pretesa di farsi norma di tutto e di tutti». Dal cuore di ciascuno l’impegno contro ogni forma di illegalità e di ingiustizia chiede, poi, di abitare le coscienze e le prassi di chi è responsabile della cosa pubblica e ha il dovere di guardare al bene di tutti: «Lottare contro le mafie significa non solo reprimere. Significa anche bonificare, trasformare, costruire, e questo comporta un impegno a due livelli. Il primo è quello politico, attraverso una maggiore giustizia sociale, perché le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria. Il secondo livello di impegno è quello economico, attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà».
La seconda parola che San Severo ci consegna stasera è “AMORE”. E’ la parola chiave della seconda lettura con cui l’Apostolo Paolo prova a spiegare ai suoi ascoltatori il motivo per cui un cristiano non può non amare. “L’amore di Cristo ci possiede”, la traduzione della Vulgata recitava “Caritas Cristi urget nos”, l’amore di Cristo ci spinge, quasi ci costringe… A fare che? A farci carico della storia, della nostra prima di tutto, accogliendola per quello che è con le sue luci e le sue ombre, ma anche della storia di coloro che condividono con noi questo tempo, questo spazio vitale della terra, le ansie e le attese di tutti coloro che hanno come noi e con noi la qualifica di essere umano. Il Vangelo ci insegna – e san Severo ce lo ha testimoniato con la sua vita – che non esiste realtà nei confronti della quale un cristiano possa essere indifferente, perché proprio Gesù s’è fatto vicino a ogni essere umano, ad ogni situazione. Questo atteggiamento ci deve vedere protagonisti attenti della nostra storia, e non osservatori passivi e indolenti di quanto capita attorno a noi, a casa nostra. Condivido con voi un aneddoto autobiografico: sono nato e cresciuto fino all’età di sei anni in campagna, condividendo la casa con altri due zii che con le loro famiglie si prendevano cura dei campi e della stalla. Ero troppo piccolo per lavorare a contatto con gli animali – ciò che facevano i miei cugini più grandi – ma gli animali erano curati e nei loro confronti c’era tanta attenzione. Ogni mattina e ogni sera veniva ripulita la stalla, e veniva offerta alle bestie, in cambio del servizio che facevano alle nostre famiglie, latte e lavoro nei campi, acqua fresca e fieno. A casa nostra, a pochi chilometri da qui, in quello che viene chiamato il ghetto di Rignano vivono più di mille persone che lavorano nei nostri campi, raccolgono i nostri pomodori, la nostra uva, le nostre ulive, ma sono trattate molto meno bene delle mucche di casa mia. È possibile che questi nostri fratelli che fanno lavori che nessuno più vuole fare (fra l’altro un improbabile sciopero da parte loro metterebbe in ginocchio la nostra già compromessa economia), debbano vivere in un immondezzaio a cielo aperto dove da qualche giorno non arriva neanche più l’acqua potabile, sottoposti alle regole spietate di persone senza moralità che le pagano con pochi spiccioli? L’amore di Cristo ci spinge, a fare che? Ad accorgerci, innanzi tutto. Ad indignarci, certo, e a non rassegnarci, provando a non restare fermi e chiusi nella sola indignazione che da sola è soltanto uno sterile esercizio che non porta a nulla. L’amore che ci fa accorgere degli altri ci deve portare a coniugare la denuncia delle ingiustizie con l’impegno per una maggiore giustizia sociale che parte già da noi, dai nostri stili di vita così appariscenti e poco solidali, dalle nostre scelte quotidiane troppo sbilanciate sulla salvaguardia di ciò che è mio e tuo rispetto alla attenzione del bisogno urgente ed evidente del fratello che mi sta accanto. Il vescovo servo di Dio don Tonino Bello scriveva ai giovani (ma vale per tutti!): «Diventate voi la coscienza critica del mondo. Diventate sovversivi. Non fidatevi dei cristiani “autentici” che non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani “autentici sovversivi” come San Francesco d’Assisi che ai soldati schierati per le crociate sconsigliava di partire. Il cristiano autentico è sempre un sovversivo; uno che va contro corrente non per posa ma perché sa che il Vangelo non è omologabile alla mentalità corrente». Per attuare questa azione d’amore occorre partire da ciascuno di noi, dalla riforma delle nostre coscienze. Bisogna che ci guardiamo dentro seguendo la voce scomoda della nostra coscienza che ci inchioda alla responsabilità per la ricerca del bene comune, facendo ciascuno la propria parte. La comunità cristiana non è estranea all’impegno per la costruzione di questa società civile e si impegna con i suoi mezzi a fare la sua parte. Essa non è mossa da interessi di parte o di potere. Neppure da un bisogno di visibilità. Ma solo ed esclusivamente dall’amore di Cristo, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo: «L’amore del Cristo infatti ci possiede» (2Cor 5,14).
La terza parola che San Severo ci consegna stasera è: “TALENTI”, quelli che il Signore ci ha regalato come cristiani. Non solo i talenti personali, legati alle nostre capacità ed attitudini, ma anche quelli legati alle nostre strutture ecclesiali, la Diocesi, le parrocchie, i gruppi, i movimenti, le associazioni, le confraternite, le numerosissime attività collegate a queste strutture/dono: come ci aiutano a diventare cristiani migliori? Ascoltiamo cosa ci dice il papa nella Evangelii Gaudium: “La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. (…) Il Vescovo deve sempre favorire la comunione missionaria nella sua Chiesa diocesana perseguendo l’ideale delle prime comunità cristiane, nelle quali i credenti avevano un cuore solo e un’anima sola (cfr At 4,32). Perciò, a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade. Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, dovrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Codice di diritto canonico e di altre forme di dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a fargli i complimenti”. Le nostre realtà già ricche e piene di risorse e iniziative possono davvero diventare il terreno fertile dove poter coltivare l’autentico senso di cittadinanza di chi sa che come credente è chiamato a promuovere il Regno di Dio già in questo mondo, su questa terra, che il Signore ci ha regalato perché sia il luogo della felice comunione fra tutte le creature. Come ricordava il grande Agostino nel “De Civitate Dei”: «L’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al di sopra di tutto la gloria di Dio. […] I cittadini della città terrena son dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale.» Chiediamo dunque al Signore e alla intercessione del nostro protettore il dono dell’entusiasmo per poter essere protagonisti con l’attuale e le future generazioni di una città di Dio che già abiti la nostra terra: “Ecco la dimora di Dio fra gli uomini!”  A San Severo vescovo e alla sua intercessione offriamo la nostra preghiera per la nostra chiesa, la nostra città e per ogni uomo e donna di buona volontà che voglia costruire un mondo più bello e più giusto per le future generazioni.

Cattedrale di San Severo, 25 settembre 2017

Mons. Giovanni Checchinato,

Vescovo di San Severo